Pellicce al bando. La Commissione Bilancio del Senato ha approvato la Legge di Bilancio 2022 che sancisce uno stop della produzione nel nostro paese
In Italia sono ancora presenti cinque allevamenti di visone nelle regioni Lombardia, Emilia-Romagna e Abruzzo. Il conto alla rovescia per loro iniziato perché dal prossimo 1° gennaio 2022 dovranno terminare la loro attività.
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Così ha stabilito la Commissione Bilancio del Senato tramite l’approvazione dell’emendamento alla Legge di Bilancio. In Italia, infatti, terminerà per sempre la produzione di pellicce. L’attività era già stata sospesa nel novembre dell’anno scorso, tuttavia c’è stata una proroga fino al 31 dicembre 2021. L’accelerazione è stata data dalla segnalazione di contagi di animali intaccati da Coronavirus in Danimarca. Questa decisione denota, inoltre, un allineamento del nostro paese con altri stati europei (e non solo). É decisamente cambiato il modo di pensare riguardo l’indossare questo capo di abbigliamento.
Da un lato c’è ovviamente chi festeggia come gli esponenti della Peta (People for the Ethical Treatment of Animals). Il vicepresidente Mimi Bekhechi in un comunicato ha detto: “Grazie mille al Parlamento italiano per aver riconosciuto che la pelliccia appartiene agli animali che la indossano dalla nascita e per aver inaugurato una nuova era…”
Già grandi marchi del Made in Italy avevano già detto addio all’utilizzo delle pellicce nelle loro collezioni: da Giorgio Armani a Prada passando per Versace , Valentino e Gucci.
Tuttavia, assistiamo anche alle proteste dell’Aip (Associazione Italiana Pellicceria) che sostiene che l’approvazione del nuovo emendamento cancellerà un pezzo di Made in Italy e un intero settore produttivo.
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La chiusura degli allevamenti italiani, soggetti a controlli, tracciabili e certificati, lascerà il fianco scoperto a un pericolo, ossia l’acquisto di prodotti privi di protocolli (provenienti per esempio dalla Cina) e che comporteranno un calo della qualità.
Per le aziende coinvolte sono stati previsti degli indennizzi in proporzione al numero degli animali presenti negli allevamenti, con un contributo del 30% sul fatturato registrato nell’ultimo ciclo produttivo, fino a un massimo di 10mila euro a fondo perduto per sostenere le spese di demolizione degli impianti.